di Liliana Camuti.


 

Ho la fortuna di avere un padre eccezionale. Ho la fortuna di avere un padre eccezionale che è stato, fino al giorno del suo congedo, un maresciallo quasi monumentale. Quasi perché, fortunatamente, non è rimasto ucciso dalla mafia, benché una parte di essa, come racconterò, lo avrebbe eliminato di buon grado, se non avesse subito il veto della parte prevalente. Mio padre è siciliano, nato a Patti nel 1934, da genitori commercianti; a 10 anni perde l’amatissimo fratello sedicenne a seguito dell’esplosione di una mina. Appena diciottenne si arruola nell’arma dei carabinieri. Il superiore, incaricato di comunicargli la sua prima destinazione da carabiniere semplice, gli dice che ha la faccia di uno da inviare in Puglia…non so bene cosa volesse dire…ma, in Puglia, la sua faccia si riprodurrà in molti sorrisi, perché è lì che incontra una donna bellissima: la mia mamma. Successivamente viene trasferito a Enna, dove si impegna nello studio allo scopo di superare le prove per accedere alla Scuola dei Sottufficiali dell’Arma. Inizia un biennio di fatica nelle varie discipline tecniche e fisiche. Eccelle nel canottaggio e nel judo. Neosottufficiale viene inviato in Calabria, a San Roberto e dopo a Casalnuovo D’Africo. Nel 1963, è destinato a Drosi dove la faida tra Maisano e Stillitano terrorizza la comunità. Viene assegnato alla protezione degli Stillitano, perseguitati da Maisano, che ha giurato di volerli sterminare. Sono anni pericolosi, ma determinanti per rafforzare la sua tempra. Da Reggio Calabria vengono destinati a Drosi, i migliori elementi del nucleo investigativo, tra loro emerge fortissima la personalità dell’Appuntato Curcuruto. Accade che un brigadiere della squadra viene meno, si impone la necessità di sostituirlo…operazione tutt’altro che semplice. I primi due incaricati marcano visita, col terzo non va meglio. Si pensa a quel giovane brigadiere di poca esperienza, ma assoluta abnegazione, già dimostrata nel delicato compito di tutelare gli Stillitano; ha coraggio e disprezza l’inerzia. Entra così in una squadra già coesa, fatta di uomini volenterosi e determinati, con cui si cimenterà in ricerche estenuanti, senza cedimenti. Anni di appostamenti, notti all’addiaccio, interminabili giorni di attese…senza successo! Maisano resta imprendibile. Verrà ucciso nel 1967 da due soggetti vicini superstiti al clan avversario; ferito alle gambe, riesce comunque a fuggire in mezzo ai campi, raggiunto viene falciato da una scarica di pallettoni. Nel frattempo mio papà e mia mamma si uniscono in matrimonio, e da sposato viene destinato a Cosoleto, poi a San Calogero, quindi a Rizziconi. E’ qui che comincia davvero a capitalizzare la sua formazione, dimostrando pienamente le sue doti da segugio e la sua autentica umanità. Comanda la stazione dei carabinieri in un paese apparentemente tranquillo, ma tenacemente condizionato dalle famiglie mafiose. Non dispone di molti uomini, ma alcuni sono validissimi. Il colonnello lo consulta per sapere come aiutarlo nell’affrontare la gragnuola di attentati dinamitardi nella zona di Taurianova. Servono uomini. Militari di razza…come Curcuruto. Già conosciuto nel periodo della caccia a Maisano, ha per lui grande considerazione. Più anziano, poco incline alla cautela, ma compagno generoso e affidabile. Molto hanno imparato l’uno dall’altro, ancora oggi che non è più tra noi, mio padre lo ricorda con riconoscenza e filiale affetto. A seguito di una serie di attentati e omicidi avvenuti a Taurianova, operano fruttuosamente insieme, eseguendo importanti arresti nella piana di Gioia Tauro, in particolare quello di Palmiro Fazzari. Da comandante della stazione dei carabinieri di Rizziconi, mio padre si è prodigato in una serie di arresti eccellenti, ma una volta, mi ha di recente confessato, la sua coscienza lo ha indotto ad evitare di seguire una pista che gli avrebbe garantito l’arresto di un latitante, perché era certo che la vendetta nei confronti del delatore, in quel particolare caso, sarebbe stata ineludibile; sapeva che non avrebbe potuto tutelarlo adeguatamente. L’autore della soffiata restò immediatamente ucciso, quando altri, cui lo stesso fornì l’informazione, eseguì l’arresto. Spesso il confine tra ciò che la nostra coscienza ritiene giusto e ciò che la legge ritiene doveroso è assai controverso, ma mio padre non si è mai pentito di quella scelta. Da Rizziconi si ritrovò a realizzare delicate operazioni contro eccellenti esponenti della mala, anche nel nord Italia. Ricordo, in particolare, quello di Vincenzo Giuffrè, catturato a Torino, in occasione delle nozze del figlio. Il Giuffrè era stato visto da un carabiniere uccidere un membro della famiglia Pellegrino. La faida tra le due famiglie imperversava nella cittadina di Seminara da cui il Giuffrè riuscì a fuggire. La notizia delle imminenti nozze del figlio, a Torino, risultò essere la pista giusta per inchiodarlo. L’incarico fu dato a mio padre, scortato da un carabiniere di Seminara che conosceva bene il Giuffrè ed era quindi in grado di riconoscerlo. A bordo di un treno, raggiunsero Torino, scesero dal convoglio, ma a pochissimi metri da loro, il carabiniere individuò tra la folla la moglie del Giuffrè, lo disse a papà che quasi lo scaraventò a terra per impedire che la donna lo riconoscesse, a sua volta…; l’intera operazione sarebbe fallita. La donna non si accorse di nulla, proseguì per la sua strada, segnando la fine della corsa del consorte. Infatti, malgrado l’ordine fosse di agire il giorno del matrimonio, ossia l’indomani, il pedinamento della moglie li condusse all’abitazione del figlio, da lì videro uscire un’auto con a bordo il Giuffrè che, arditamente si era tinto la chioma di un improbabile colore castano chiaro! Non bastò ad evitare il suo riconoscimento da parte del carabiniere che persuase mio padre dell’identità del Giuffrè. Irruppero nella casa dei futuri sposi e arrestarono il Giuffrè che morì in carcere non molto tempo dopo. Nella sua esperienza rizziconese, papà ha proceduto all’arresto di oltre 200 persone responsabili di reati contro la persona e il patrimonio, o in esecuzione di ordini di cattura o di custodia cautelare. Ricordo i più significativi: Fazzari di Rosarno, Tripodi di Gioia Tauro, Facchineri di Cittanova. Una citazione particolare merita l’arresto di quel Pino Scriva di cui papà finì per imitare l’abbigliamento comodo…con uso di scarpe da ginnastica per riuscire ad acciuffarlo nelle campagne di Polistena. Una vasta operazione per catturarlo…un’inadeguata cura delle guardie carcerarie per assicurarne la custodia! La sua definitiva cattura avverrà a Rosarno, come racconterò, qualche anno dopo. Il 30 aprile del 1974, in piena notte, fummo svegliati dal rumore della esplosione di una generosa quantità di tritolo collocata davanti all’imponente portone d’ingresso della caserma, nei cui locali al piano di sopra, alloggiavamo noi familiari. Sullo stesso pianerottolo, nell’appartamento di fianco, risiedevano i 3 carabinieri in servizio. Ricordo bene i pomelli degli armadi che schizzavano come schegge furiose, il fumo, le fiamme e il pianto di mia madre che, incinta di 7 mesi, da quella notte non si è mai ripresa del tutto…E ricordo ancora le forti braccia e il sorriso, sotto i suoi ipertrofici baffi, di chi ci ha portato in salvo: il carabiniere Giovanni Colucci. Forte e calmo, ci accompagnò fuori da quella trappola, come se fosse un gioco, benché insolito. Non piangemmo mai grazie a lui. In questi 43 anni non lo abbiamo mai dimenticato. Chi elaborò crudelmente la vile azione lo si scoprì agevolmente. Fu, quasi da subito, chiaro che, pur non essendo stato il materiale esecutore, che usando miccia catramata a lenta combustione aveva potuto agilmente dileguarsi, ad ordire l’attentato fu Guido Fedele. Mio padre lo aveva arrestato una prima volta per renitenza alla leva, dopo un inseguimento a piedi, in cui aveva facilmente avuto la meglio. Le persone che assistettero, in pieno centro e in pieno giorno, a quella strana corsa, ancora oggi ricordano che sembrava “veloce come il vento”, invero come suo padre che correva 100 metri in 13 secondi! Nella cittadina del nord, in cui il Fedele fu mandato in soggiorno obbligato, non migliorò la sua fedina penale, rendendosi responsabile di rapine e furti. Nuovamente latitante, tornò ad essere oggetto delle attenzioni di mio padre che avviò una pletora di perquisizioni a carico dei familiari del latitante. Un’attività certosina che al Fedele e ai suoi familiari risultava alquanto molesta, da qui, con la complicità di altri sodali ostili a mio padre, il proposito di attuare la sua vendetta. Riporto di seguito un brano tratto dalle pagine di cronaca della Gazzetta del Sud di quel giorno: “il maresciallo Giovanni Camuti, dal 1968 a oggi, si è distinto in numerose operazioni antimafia ottenendo numerosi encomi. Ha svolto un’intensa attività anticrimine nella zona compresa tra le campagne di Palmi e Taurianova, assicurando alla giustizia numerosi latitanti. Guido fedele aveva manifestato pubblicamente l’intenzione di vendicarsi del maresciallo Camuti.” La latitanza del Fedele non si protrasse a lungo. Nell’ottobre dello stesso anno, viene segnalata la sua presenza nel centro abitato di Drosi. I carabinieri circondano la zona e, dopo aver perquisito varie abitazioni, irrompono in quella del muratore Danilo Contardo. Nel bagno, mio padre nota alcune impronte di fango, scorge in alto una botola che porta ad una soffitta, vi accede e per un istante scorge l’ombra del Fedele che si ostina a nascondersi dietro una pila di tegole. Comincia un parlamentare concitato, non vuole arrendersi…lo farà solo quando quel maresciallo, di buona memoria, rammentandone la fobia dei cani, lo minaccia di farli intervenire. Viene così arrestato un soggetto spavaldo e vile, su cui pendevano 5 mandati di cattura emessi dalle procure di Bologna e di Palmi. Il cerchio si chiude. A Rosarno inizia una nuova avventura, la fase, credo, più significante della sua vita. Qui, vivremo gli anni più difficili, ma anche più belli. La caserma dei carabinieri era vecchia e priva di un adiacente alloggio per noi familiari; in attesa che fosse disponibile, fummo ospitati nei locali della Compagnia Speciale, in un edificio di 3 piani occupato da una cinquantina di carabinieri. Sicurezza assoluta e pochissimi contatti con i civili. Negli anni ’80 (oggi…spero meno) Rosarno era una cittadina gravemente oppressa dal “governo” delle famiglie mafiose dei Pesce, Bellocco, Piromalli etc. Sono cognomi che mio padre ci impose di mandare rapidamente a memoria; io e le mie sorelle eravamo ormai tutte in età scolare, sicché si doveva essere caute nel negoziare amicizie a scuola. Imparammo a chiedere, prima del nome di un compagno, il suo cognome! Vivevamo un po’ isolate, i primi anni, non avevamo scelta, ce la siamo fatta piacere…e comunque non ci pesava poi tanto, perché rassicurate dall’affetto di molti “fratelli”: i carabinieri di papà. Avevamo costituito una famiglia allargata “ante litteram”, quasi tutte le domeniche, si pranzava insieme. Più di una volta, mamma e papà rinunciarono a partire per Natale o Pasqua, al solo fine di evitare la solitudine per i 2 carabinieri cui sarebbe toccato piantonare il forte! A Rosarno, la carriera di papà, già ricchissima di successi e riconoscimenti, si sublima nel conseguimento di risultati clamorosi. Ed è a Rosarno che la vita di mio padre correrà il rischio di concludersi anzitempo, prima di essere tribolata dalla protervia di persone con tante facce e pochissimi scrupoli. Da comandante della stazione dei carabinieri, il suo diretto superiore è il Capitano di Gioia Tauro: Gilberto Murgia. Se per pudore non ho l’ardire di usare la parola “mito” per mio papà, mi permetto tale eccesso agiografico, ricordando la figura e l’azione del Capitano sardo. Un sardo…sorridente; uomo coraggiosissimo, risoluto e indefesso nell’azione, chirurgico e metodico nel ragionamento. Il migliore capitano che papà abbia mai avuto. La sintonia è perfetta, da fare ingelosire le rispettive mogli, si intendono con un’alzata di sopracciglio! I loro ritmi circadiani, però, divergono. Murgia ama uscire in perlustrazione la sera, mio padre alle prime luci dell’alba, ma è il capitano a decidere. Tra le 4 e le 5 del mattino, papà rincasava tutto sbrindellato, dopo aver scarpinato per ore lungo i fiumiciattoli, in mezzo ai campi, in montagna, superando fossati, varcando cancelli che, a volte, risultavano aperti favorendo un liberatorio sfottò di chi, sopraggiungendo, lo superava con una semplice spinta…Tutto ciò accadeva quasi tutte le notti; il mattino dopo, in ufficio, evadeva le immancabili scartoffie, senza mai un lamento. Faceva il suo mestiere al meglio, punto! L’eccellenza dei risultati, la stima della gente, quasi direi la benevolenza, anche dei genitori dei tanti giovani dalla guida disinvolta che, quasi mai multati, venivano “energicamente” persuasi a correggersi, e degli studenti, i cui stratagemmi per impedire l’accesso alle aule, venivano immancabilmente neutralizzati dall’intervento di quel maresciallo scafato che si curava anche di questo…e, infine, il sostegno di alcuni degni colleghi…tutto questo e altro lo hanno accompagnato e sorretto in quei sette faticosissimi anni. Delle varie, pregevoli operazioni compiute, in quegli anni, ricorderò per prima, quella il cui esito agita ancora il suo sonno! Il mancato arresto di Michelangelo Franconieri, uno dei 300 latitanti più pericolosi d’Italia. Viene segnalata la sospetta presenza di un pulmino abbandonato alla fine di una stradina sterrata e strettissima, che costeggia un cavalcavia vicino allo svincolo autostradale. Chiama con sé il carabiniere più abile nell’armeggiare coi fili di accensione delle auto; si unisce a loro, fatalmente, un carabiniere da pochissimo giunto a Rosarno, di cui papà non si fida ancora e…non avrà modo di ricredersi, anzi! Arrivati a destinazione, avviata l’accensione del pulmino il primo carabiniere, alla guida del pulmino, avanza lestamente su per la stradina, mentre papà resta con l’altro carabiniere a perlustrare la zona. Nulla di rilevante viene reperito e si decide di rientrare, se nonché, arrivati a metà della stradina, mio papà, alla guida dell’auto, si avvede di un’auto in direzione contraria che si blocca non potendo proseguire, per lo spazio limitato; è un attimo sufficiente a convincersi che in quell’auto vi sono Michelangelo Franconieri e il suo sodale Bellissimo. La strada strettissima permette di bloccarli con la propria auto, papà scende e trattiene facilmente il Franconieri, mentre l’altro si dà alla fuga…ma ci ripensa, torna indietro e comincia a spintonare e ad aggredire mio padre che prova a dimenarsi tra i due. Non potendo tener fermo il primo e neutralizzare il secondo, restando inerte il carabiniere, gli impone di tenere la presa sul Franconieri, per avere modo di contenere l’aggressività del Bellissimo, cosa che gli riesce rapidamente, ma a caro prezzo! Voltatosi verso il carabiniere, lo ritrova impietrito, con una mano a reggere una giacca senza più nessuno ad indossarla! Mio padre non ebbe più occasione di incrociare il Franconieri e non restò a lungo il maresciallo di quell’ingenuo…militare che fu trasferito, anzitempo, altrove. Nel 1983, viene chiesto al maresciallo Camuti di verificare la segnalazione per la quale, il re dell’evasione Pino Scriva, già in passato tratto in arresto, si troverebbe in una delle case dei Pesce. A papà sembra illogico, ma esegue l’ordine, si reca nella zona e vi trova un soggetto, confidente di un collega, che con un lesto movimento del capo indica una certa casa. Urtata la porta, papà si ritrova davanti la…lepre! Sorridente, quasi sollevato, non oppone resistenza alcuna. Gli eventi successivi corroboreranno la sensazione che papà ebbe quel giorno: Pino Scriva voleva essere catturato e…parlare. Resta, a tutt’oggi, probabilmente, se non il più efficace, certamente il primo, importante “pentito” della ‘ndrangheta calabrese. Le sue dichiarazioni sono risultate fondamentali per ricostruire molti fatti criminosi, alcuni davvero aberranti, di cui egli ha svelato modalità di esecuzione e autori. Pur avendone contezza, non riferirò i termini in cui fu favorita la sua disponibilità a collaborare, certo è che l’efficace azione delle forze dell’ordine determinata in virtù della sua testimonianza, deve far pensare tutto il bene possibile di una strategia di contrasto alla criminalità che si avvalga, anche, di questo modus procedendi. Scriva rivelerà molto di fatti di cronaca avvenuti nella piana di Gioia Tauro, tra il 1977 e il 1984. Ricordo quelli che più mi hanno sconvolta, come l’uccisione di una donna, del marito e del loro figliolo di 9 anni, per mano dei fratelli e del padre di lei. Una strage determinata dalla volontà di punire la donna, legata ad un altro uomo, non “energicamente” ostacolata dal consorte, e dunque entrambi “rei” di non rispettare la “morale” mafiosa. Ancora oggi, papà rammenta con sofferenza gli esiti di quella mattanza e il vuoto, il freddo negli occhi degli assassini, tutti appartenenti alla famigerata famiglia dei Bellocco. Non posso poi dimenticare quanto accadde nel giugno del 1980. Viene ferito a morte Giuseppe Valarioti. Dal bel libro di Danilo Chirico e Alessio Magro, “Il caso Valarioti”, cito testualmente: “il 10 giugno 1980 non è un giorno come gli altri. E’ il giorno della vittoria, dei festeggiamenti, della felicità, per avere resistito alle cosche, E’ il giorno di Peppe Valarioti. L’ultimo.” Parole diverse per dare la misura del personaggio sarebbero fruste. Ho riletto, però, l’intervista rilasciata, qualche tempo dopo, dalla fidanzata del Valarioti. La macchina del fango, con cui mafiosi e fiancheggiatori operano con chirurgica, tempestiva efficienza, aveva significativamente tentato di deviare le indagini dalla pista mafiosa a quella di un presunto, fantomatico altro pretendente dell’insegnante Carmela; coraggiosa e forte, come il suo compagno, usò parole nette e perentorie per smentire quella farneticante selva di bugie strombazzata anche da pessimi rappresentanti delle istituzioni, incapaci di cogliere le buone occasioni, quantomeno per tacere…Anche i muri sapevano che la mafia, costituita innanzitutto dai Pesce e dai Piromalli, non gradiva l’opera di bonifica che il Valarioti e altri, come Peppino Lavorato, stavano conducendo nella realtà culturale, politica, ed economica della città di Rosarno. Per competenza territoriale, le indagini furono condotte dai carabinieri di Nicotera. Il coinvolgimento di Peppino Pesce era quantomeno presumibile, inoltre si trovava in zona grazie alla concessione di un permesso per far visita alla madre. Incautamente, alcuni esponenti del partito di Valarioti accusarono il maresciallo di Rosarno di avere prolungato ad arte quel permesso, favorendo così l’uccisione del loro compagno. Ho scritto incautamente, ma dovrebbe leggersi…con crassa ignoranza delle disposizioni di legge vigenti! Come molti sanno, solo l’autorità giudiziaria può disporre sui permessi dei detenuti, certamente non può farlo un maresciallo dei carabinieri. Tempestivamente confortato dalle scuse di Lavorato, che papà apprezzava per coraggio e integrità, ancora il rimpianto è di non aver potuto fare di più; tuttavia, per quanto alla fine dei vari processi, il boss Pesce non fu riconosciuto colpevole di quel delitto, finì comunque per essere arrestato, concludendo in galera la sua infima esistenza. Torniamo al 1983, meglio al 1984. Anni di attività infaticabile nel braccare mafiosi violenti e protervi. Capo della mafia della piana di Gioia Tauro è Giuseppe Piromalli. Protetto da mezza Gioia Tauro. Imprendibile. E’ lui l’uomo per cui Gilberto Murgia non dorme la notte, è lui l’uomo per cui mio padre non può dormire la notte, ma è anche l’uomo che ha salvato le loro vite. Una specie di confidente, ma oggi papà preferisce indicarlo come amico, gli chiede di raggiungerlo con urgenza. Un sicario è stato ingaggiato da Mimmo Molè per eliminarli. Capitano e maresciallo ammutoliscono; certo, è un rischio che la loro professione impone di mettere in conto, ma resta un pensiero liquido finché gli occhi del loro interlocutore si fanno ugualmente liquidi nello scorgere i loro visi contratti. La parte successiva della notizia apre uno spiraglio, forse qualcosa di meglio. La volontà del Molè sarebbe stata contrastata dalla vigorosa opposizione del capo in persona (Piromalli); gli avrebbe ucciso anche l’ultima delle sue galline, se avesse sparato ai due militari, innescando così una lotta feroce con le forze dell’ordine. Questo è quanto viene riferito. Le settimane successive saranno frustranti, nessuno ha l’equipaggiamento neurologico adeguato a sostenere il pensiero costante di una condanna a morte. Bisogna far presto, bisogna fare meglio. Con un’ostinazione smisuratamente sarda…Murgia impone un’incessante attività di appostamenti in ogni quartiere vicino alle abitazioni dei Piromalli. Finché un giorno, dal tetto di un palazzo vicino, con papà al suo fianco e il binocolo in direzione della casa del boss, presso cui altre unità erano assiepate, si avvede di un uomo con una giacca color beige che esce dalla casa spensieratamente, ma… annusata l’aria greve…ritorna svelto sui suoi passi chiaramente intenzionato a nascondersi. I militari irrompono in casa e, a parte le donne, non trovano altri, neppure il tipo dalla giacca beige. Si cerca dappertutto, finché il Capitano nota, su un radiatore, delle scarpe in bella posa; è un segugio che fiuta il marcio; divelto il termosifone, ritrova l’uomo dalla giacca beige e altri latitanti, nel loro bugigattolo attrezzato per allietare la loro permanenza. Altri nascondigli verranno espugnati nella casa, tra intercapedini e radiatori, e altri pavidi mafiosi assicurati alla giustizia, ma il boss ancora una volta è fuggito per tempo, ma non per molto. Il giorno felice si vivrà poco dopo i fatti di cui sopra. Questa volta, l’appostamento non è particolarmente imponente nell’impiego di militari. Si trovano quasi a fare una giratina, papà e il suo capitano nei pressi della casa di una nipote del boss, allorché, notato un uomo che, alla loro vista, quasi si avventa sulla porta d’ingresso, Murgia lo raggiunge con un balzo, riuscendo ad incastrare il suo piede tra lo stipite e la porta. Solo quella porta, ormai, lo separa dalla sua preda. E’ fatta! Il boss è lì, massiccio e imperscrutabile, lo guarda negli occhi e, un attimo dopo, gli domanda: “dov’ è il maresciallo Camuti?”, la risposta è fulminea e veracemente sicula: “Qui, sono, don Peppino!”. In una notte di pioggia, tempo addietro, gli era sfuggito di un soffio, tutti i loro sforzi sono, ora, meritoriamente premiati, a partire dallo sguardo ammirato di quell’uomo che riconosce il loro valore e, forse, la dignità di quelli che stanno dalla parte giusta. Prima di essere trasferito in un carcere di massima sicurezza, interrogato solo dal capitano e dal suo inseparabile maresciallo, dietro l’insistenza delle loro domande si abbandonò solo ad una dichiarazione: “Sì, è vero…vi ho salvato la vita. E ora non parlo più”, così è stato. Don Peppino non ha mai collaborato. La sera di quello storico giorno fu per mamma e noi sorelle sorprendentemente memorabile. Volendo condividere la sua incontenibile gioia, il capitano, pur essendo poco incline al sentimentalismo, abbandonato ogni pudore, al seguito di mio papà, entrò nella nostra casa alle 11 di sera, mentre noi già si dormiva. Urlava felice, abbracciando la mamma incredula, che ricambiò con gioia quell’abbraccio che le alleggerì il cuore dall’angoscia e dalla paura di quegli anni (alimentate anche da continue telefonate intimidatorie). Vivemmo quella serata insieme, tra sorrisi e lacrime, esultando e commuovendoci. La mattina dopo, ero sul bus coi miei compagni per una visita al museo di Reggio Calabria. Il viaggio di andata si rivelò piuttosto vivace. Salita a bordo, fui accolta da un gentile epiteto, a me già noto: sbirrazza di merda! A spiovere altri coloriti appellativi a favore del mio papà, colpevole di avere reso meno tossica l’aria della piana. Non dissi una parola. Non ebbi paura, ma prima di sedermi al mio posto, mi girai, li fissai per qualche secondo e sorrisi. L’epilogo della stagione rosarnese segnerà la fine della serenità della mia famiglia per alcuni anni a venire. Un signore che indicherò con l’iniziale del cognome V., di professione mobiliere, faccendiere nella sostanza, burattino della mafia e burattinaio di uomini delle istituzioni, ( forse, non del tutto consapevoli della sua vera attività), riesce a condurre uno scaltro doppio gioco. Si presenta come amico dell’Arma, intreccia relazioni, anche troppo amicali, con cancellieri e magistrati. Li incensa, li omaggia e, forse, in buona fede, gli utilizzatori di queste regalie, non ritengono opportuno, (ma avrebbero dovuto), opporsi a tanta generosità che, di rado, è a costo zero. Il nostro signor V. si compiace del poter essere utile ai potenti, specie se hanno un nome di sicuro effetto: Peppino Pesce. Accade che una vasta e articolata operazione, che vede impegnati un centinaio di militari, si risolva con esito quasi fallimentare. Le dozzine di mandati di cattura restano, quasi del tutto, ineseguite. I destinatari, anche quelli come Peppino Pesce che erano stati avvistati poche ore prima, risultano essersi dileguati. Tacendo della sorte benevola per gli altri, quella del Pesce fu di sicuro procurata dall’intervento del nostro faccendiere. Viene visto uscire dalla casa del mafioso da un brigadiere, poco dopo la partenza delle operazioni che egli poteva facilmente monitorare, abitando e lavorando nei pressi della locale stazione dei carabinieri. E’ lui ad avere avvisato il boss. La denuncia per favoreggiamento a suo carico è inevitabile, come la sua vendetta che avrà tempo di consumare solo contro mio padre, giacché il capitano Murgia è presto destinato a ricoprire a Roma l’incarico che coronerà la sua strepitosa carriera. Il nostro V. attiva quello che oggi chiameremmo un “giglio magico”, costituito da un cancelliere, un appuntato, un maresciallo e…un magistrato. Un manipolo di mediocri raggirati dalle sue maldicenze, abbrutiti dalle sue subdole manovre finalizzate a screditare mio padre, facendolo, possibilmente finire in galera! La trama ordita da V. necessita di una vittima sacrificale: il signor A.. Sarà lui a pagare, trascorrendo un periodo di custodia cautelare in prigione, per il piano criminoso messo in piedi da V., al solo scopo di incastrare un suo amico, il mio papà. Il signor A. viene denunciato per aver venduto un’auto che, sulle prime, l’appuntato, esperto di motori, giudica in ottimo stato. Questa versione, la prima, è quella vera, ma verrà ritrattata dall’infedele appuntato, a ciò convinto, (non è dato sapere con quali promesse…) dal signor V.; l’accusa nei confronti del signor A. è fondata solo, incredibile a dirsi, su quella mendace testimonianza. Il manigoldo spera, e in questo palesa la totale disconoscenza della tempra di mio padre, che, data la buona amicizia del signor A. col maresciallo Camuti, questi, a seguito del mandato di cattura emesso contro A., lo avvisi per tempo, consentendogli di fuggire. L’operazione si avvale del fattivo contributo di un “integerrimo” magistrato, sostituto procuratore della Repubblica. Persuaso, (con quali parole ancora una volta non è dato sapere, ma solo intuire), dal signor V., a cui lo lega una ben nota amicizia, rende possibile l’avvio di un procedimento penale a carico del maresciallo Camuti per favoreggiamento. Lo accusa di avere indugiato nell’esecuzione del mandato di cattura, malgrado un semplice calcolo aritmetico dei giorni trascorsi tra emissione e notifica dello stesso mandato, provasse il contrario. Nell’interrogatorio,” l’integerrimo” magistrato si allontanerà dalla stanza, non avendo neppure il coraggio di sostenere l’accusa, al cospetto di mio padre che, armato di carte e di conoscenza dell’aritmetica…smantellerà la mediocrità del dottor B., sostituto procuratore della Repubblica. La sentenza di assoluzione è motivata dalla “insufficienza di prove”. Non basta. Non basta a mio papà. Si va in appello; sarà sufficiente che i magistrati leggano bene le carte per avvedersi della ridicolaggine del procedimento. Assolto perché il fatto non sussiste. Mio padre, mortificato da un magistrato, risorto grazie ad altri magistrati…che non deve ringraziare: hanno solo fatto il loro mestiere, come va fatto, onestamente. Ad un magistrato, integro e coraggioso, va però, un pensiero affettuoso e di immensa stima, per la solidarietà dimostrata a mio padre, in un momento, per così dire…impopolare: Ezio Arcadi. E’ sufficiente che ad assicurare onore alla magistratura ci siano uomini come lui! Quanto al dottor B., sarà fiero, forse, della carriera fatta, ma la sua coscienza non potrà mai esserlo per la meschina azione intrapresa contro il maresciallo Camuti, che è ancora vivo…e aspetta le sue scuse, tardive certo, ma non inutili. E l’omuncolo, il signor V.? Beh…la sua morte dice tanto della sua vita. Fu ucciso da un proiettile alla nuca, mentre giocava a carte, seduto al tavolino di un bar. Dopo questa infelice vicenda, papà sarà destinato a comandare la stazione dei carabinieri di Isola Capo Rizzuto. Anche qui svolgerà una fervida attività, finché un giorno il suo fisico presenterà il conto. E’ il 1993. E’ tempo di fermarsi. Ha dato tutto ciò che poteva dare, ha fatto tutto ciò che poteva fare e…molto di più. E’ stato il maresciallo di tutti: di quelli che sanno operare legalmente, ma, ancor più di quelli che non conoscono altro modo di agire, se non violando le regole del vivere civile. Ora è tempo di trovare un modo diverso di vivere. Un tempo in cui accendere il fuoco nel camino per la sua amatissima sposa, curare il giardino, vivere sereno per avere vissuto al meglio, sorridendo ai nipoti onorati dall’avere un nonno privilegiato dall’ineffabile fortuna di saper fare il proprio dovere. Questo è ciò che fa un uomo.