di Antonio Giusto
Roma delle contraddizioni, delle odiose diseguaglianze sociali, della latitanza delle istituzioni civili e religiose, obbligate per legge o vocate per carisma (le suore indiane di madre Teresa di Calcutta si insediarono parecchi anni dopo), vede l’inizio della singolare avventura dei “Ragazzi del sacco”. L’espressione fu coniata da Giuseppe Quintini redattore del quotidiano “Il Tempo” che una notte, “per caso”, li notò impegnati a prestare soccorso a quegli strani tipi.
Ma, più che una stazione della metropolitana, scriverà successivamente – sembrava quella la casbah di Algeri.
Tra sacche che traboccavano di vestiti e calzature, thermos con cibi e bevande calde, coperte e bustarelle con qualche soldo, un vociante e frenetico brulichio di persone e di cose animava l’insolito set. Un furgoncino, con i sedili posteriori ribaltati, stazionava in superficie, pronto a portare all’ospedale i più malandati e nelle pensioni della zona chi era munito di documenti.
Il giorno dopo un articolo a “nove colonne” sollevava il velo che copriva la realtà di quella corte dei miracoli. La Diocesi del Papa allineata al degrado di certe periferie del terzo mondo! La capitale d’Italia come Calcutta?
Apriti cielo, lo scandalo scoppiò virulento! L’eco dei mezzi di comunicazione riecheggiò vasto e amplificato. La risonanza della stampa estera provocò un danno d’immagine per il paese, che non poteva essere ignorato.
Inconsapevolmente e loro malgrado, quei giovanotti tra il dandy e il bohemien avevano innescato una perniciosa reazione a catena, l’effetto domino di un incredibile putiferio.
L’esposizione e la pressione mediatica che dovetti subire in quel periodo sono state pesanti. Non ho mai amato mettermi in mostra, tantomeno mi attraevano e mi attraggono “le luci della ribalta”. Sono un minimalista di carattere timido e schivo, nonostante le apparenze.
I media ci dipingevano come “mitici eroi”, esseri oltremondani dotati di chissà quali particolari o speciali virtù. Niente di più falso! Nella mia banale normalità, non ero e non volevo sentirmi protagonista proprio di un bel niente, per il semplice motivo che speciale non sono, né mai ho aspirato ad esserlo.
Sono cresciuto disprezzandomi, persuaso di essere stupido. E non mi convinceva diversamente chi, giurando e stragiurando, affermava il contrario.
Questo complesso d’inferiorità sempre mi condizionava, mi costringeva ad essere il “primo” in tutte le cose che facevo.
Nello sforzo di apparire diverso dovevo “comprare” l’ammirazione degli altri, compensare il vuoto affettivo che mi rendeva la vita un crudele fardello, condannandomi a cercar di sembrare quel che non ero. Con la maschera del ragazzo buono, brillante, gaio e leggero, sufficientemente acculturato ed allegramente efficiente, ipocritamente coprivo l’amarezza che mi logorava, effetto di certi torti e giudizi malevoli ingiustamente subiti. Poi da grande ho capito che imbecille ero e, imbecille resto. Ma ho pure scoperto che il Signore mi vuole bene lo stesso, così come sono. E se Lui mi vuole bene lo stesso, chi se ne f …!
Ho accettato di testimoniare quel che abbiamo visto e vissuto unicamente per la maggior gloria di Dio, anche a rischio di apparire vanaglorioso, uno che crede di essere stato chissà chi o aver fatto chissà che cosa. Pensando al passato, a quello che è successo, alle opere compiute non da noi ma dallo Spirito Santo, senza dubbio è lapalissiano che siamo stati assistiti e guidati dall’Alto, indipendentemente dalle nostre capacità e dalle nostre forze.
Siamo stati i servi inutili nel disegno di un progetto di arte ineffabile, firmato dall’Architetto celeste.
Dal ministro dell’Interno Cossiga al sindaco Argan, dal cardinal Vicario Poletti al prefetto Napoletano, dai personaggi di ogni genere ai politici di tutti i livelli, dai giornalisti italiani a quelli esteri accreditati in Italia, le richieste di interviste, convocazioni, lumi e spiegazioni ci piovevano addosso quasi tutti i giorni.
Ognuno voleva sincerarsi di certe verità per poi restarne allibito, o farne oggetto di sterili diatribe e polemiche politiche. Le interrogazioni parlamentari, presentate alla Camera dei Deputati dai capigruppo di maggioranza ed opposizione, non generarono alcun provvedimento concreto e le problematiche del barbonismo restavano insolute.
I “Ragazzi del sacco” però continuavano ad assistere i loro amici come meglio potevano. Tutte le sere alle 20, alla biglietteria n°1 nell’atrio centrale della Stazione Termini, l’appuntamento con Diana, Francesco, Guglielmo, Luigi e Pia era diventato un impegno fisso.
La svolta
Nel 1980, provvidenzialmente e “per caso”, avviene il cambiamento che si rivelerà fondamentale, l’incontro con mons. Luigi Di Liegro – nuovo direttore della Caritas Diocesana di Roma. L’unico che capì veramente, l’unico che ci prese sul serio, l’unico che colse la drammaticità del problema con trenta anni d’anticipo. L’unico che ci propose di collaborare con lui, suggerimento che prontamente accogliemmo.
Roma deve molto a questo santo presbitero. Quasi tutte le strutture assistenziali presenti sul suo territorio, sono il frutto della sua incrollabile fede e della sua intelligente umiltà.
Era di poche parole don Luigi; non amava teorizzare sulle cause dell’indigenza e la coerenza del suo pensiero era adamantina. Mi ripeteva sempre: “Bisogna chiudere le chiacchiere ed aprire le opere”. Era di una semplicità disarmante; proveniva da una famiglia di pescatori di Gaeta poi emigrata negli USA ma, prendeva il telefono e parlava direttamente col presidente della Repubblica, o con il capo del Governo.
Sono sempre stato convinto che tanta “importanza” derivava dal suo essere la personificazione di una giusta causa, di principi assolutamente ed unanimamente condivisibili, al di là e al di sopra di qualsiasi credo religioso, politico sociologico di sorta.
“L’unico valore assoluto è la dignità umana, è la libertà di ogni uomo. Ogni uomo va liberato, ogni uomo è una strada che in qualche modo conduce a Dio”. Questo, non altro, è stato il suo indimenticabile insegnamento, questi gli ideali che hanno connotato il suo agire.
Quando sento certi discorsi del caro papa Francesco, che richiama le istituzioni ed i singoli all’impegno nel segno della solidarietà riguardo i poveri, i profughi e i migranti, riecheggiano nella mia mente le parole di don Luigi che, quarantadue anni fa, diceva esattamente le stesse cose. Di lui il cardinal Ruini affermò: “Don Di Liegro della Caritas romana più che il direttore è stato l’anima”. Pur senza intimorire, l’ascendenza del suo carisma talmente giganteggiava che ai suoi interlocutori, personaggi pubblici o privati che fossero, provocava una imbarazzante e riverente soggezione.
Dal presidente della Repubblica Scalfaro al presidente del Consiglio dei Ministri Prodi, dal sindaco Rutelli al prefetto di Roma Musio, dal cardinal Vicario Ruini ai vescovi ed ai porporati residenziali dell’Urbe, con i rappresentanti degli enti pubblici e privati di Roma, con i responsabili dell’Italia che contava, col popolo e l’ultimo dei poveri di questa città, al suo funerale non mancò proprio nessuno. La basilica di San Giovanni in Laterano, mai così affollata, non riuscì a contenere appieno la fiumana di persone che si accalcavano per entrare.
Assieme a Claudio, un altro dei suoi collaboratori vicini, l’avevo visto non molto tempo prima della scomparsa alla clinica Columbus del Gemelli, dove era ricoverato. Ci salutammo al solito modo, elencando le cose più urgenti da sbrigare. Stava male è vero, ma non mi aspettavo certo una fatale evoluzione. Aggravatosi per complicanze cardiache fu trasferito all’Ospedale San Raffaele di Milano dove, all’una e trentadue della notte del 12 Ottobre 1997, tornò alla casa del Padre.
Stavo girando in Puglia quando appresi la notizia da RAI UNO che, considerata l’eccezionalità dell’evento, stava trasmettendo in diretta la cerimonia funebre. Una perdita dolorosa per me che mai sono riuscito ad accettare pienamente. Non mi sono perdonato di non essergli stato vicino nella sua ultima ora. Quella sera avevo avuto notizie, non certamente rassicuranti, intorno alle 23.00.
Nei miei piani, terminate le riprese, contavo di rientrare a Roma il pomeriggio successivo, consegnare le bobine del girato ad un collega direttamente a Fiumicino Aeroporto e proseguire per Milano, dove sarei arrivato in prima serata.
Ma, come al solito, le vie del Signore erano segnate sulle mappe di itinerari a me sconosciuti.
E le sorprese di Dio non erano ancora finite!….
Antonio Giusto, rosarnese, da anni vive e lavora a Roma come regista di diversi programmi RAI. Il racconto e l’immagine di copertina, che raffigura la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, sono tratti dal suo libro “Il Matrimonio spirituale”, di prossima pubblicazione.