di Vincenzo Sorrentino.


Dovete sapere che io sono nato a New York il 19 giugno del 1932, che il mio papà, Giuseppe, era di Rosarno, e che la mia mamma, Maria, era di Ruvo del Monte (Pz). I miei genitori a New York si recavano sul posto di lavoro la mattina molto presto, quando ancora era molto buio e la mia mamma, prima di recarsi in fabbrica, accompagnava me e mia sorella Rosa, trascinandoci per mano, mentre ancora eravamo in dormiveglia, all’asilo.

E proprio dell’asilo vi voglio parlare. Qui c’erano delle suore meravigliose che mi volevano un gran bene, specialmente la Sister, di cui non ricordo il nome. Questa suora, quando io piangevo perché volevo la mamma, mi prendeva in braccio e mi portava in una sala molto lunga, dove, su un tavolo, anch’esso lungo, c’era in miniatura una ferrovia, con una stazione, dentro la quale si vedeva un capostazione in divisa che portava in mano una paletta e dove tante persone, con le loro valigie, attendevano l’arrivo del treno. La ferrovia si inoltrava per una campagna piena di alberi, spariva poi in una galleria, posta sotto una montagna, sulla cui cima dominava una casetta, e poi riappariva per riprendere un lungo cammino tortuoso e giungere, infine, alla stazione. La Sister azionava un interruttore. Ed ecco, con mio grande stupore, l’accendersi di tante lucine, l’udire il tintinnio di un campanello, il fischio di un treno mentre usciva dalla galleria. Io guardavo attento ogni cosa, soprattutto il treno, che, intanto, si era fermato; spiavo attraverso i finestrini per vedere ( era la mia immaginazione) se dentro c’era la mia mamma ( che forse in quel momento viaggiava verso il posto di lavoro sul treno “all’aria”, cioè sul treno che camminava sulla ferrovia sopraelevata).

 

La Statua della Libertà

Quasi ogni sabato i miei genitori ci facevano vedere qualche posto interessante di New York. Fui molto stupito allorquando andammo a vedere la Statua della Libertà. Vi andammo con un vaporetto e, man mano che ci avvicinavamo alla Statua, si vedeva un via vai di navi grandi  e piccole. Ma quello che mi colpì particolarmente fu il vedere, secondo il mio giudizio, un lungo treno camminare sul mare. Ma era proprio possibile che un treno potesse camminare sull’acqua? La cosa mi fu chiara quando fummo vicino a quello strano convoglio: erano delle chiatte, collegate tra loro e trainate da un rimorchiatore, su ognuna delle quali vi erano due vagoni merci.

Ad un certo momento vidi sulla testa della Statua un formicolio. A me sembrava che ci fossero sulla fronte delle formiche un po’ grandi. Ma poi quegli insetti si trasformarono, quando fummo più vicini, in omini, quasi fossero dei nani. Era chiaro che erano delle persone che si affacciavano dai finestroni posti sulla fronte della Statua. Anche noi, una volta approdati sull’isolotto, salimmo fino a una certa altezza della Statua con l’ascensore e poi a piedi per le scale e, infine, giungemmo all’interno della testa e ci affacciammo dai finestroni per vedere il mare sotto di noi e, in lontananza, i grattacieli di New York.

 

Preparativi per il ritorno in Italia

Nella mia famiglia mi accorgevo che c’erano tanti cambiamenti. La mia mamma non andava più a lavorare, io e zia Rosa non andavamo più all’asilo, andavamo più spesso al parco e, col famoso “treno all’aria”, anche a Long Island dalla zia Concettina, sorella di papà. Un giorno andammo prima dal fotografo e poi salimmo su un’ auto di colore giallo (era un taxi) che ci portò a un gigantesco palazzo (un grattacielo). Attraversammo un ampio salone ed entrammo in un ascensore; giungemmo davanti a un ingresso ed entrammo in un grande ufficio, dove c’erano delle signorine che scrivevano a macchina causando un assordante ticchettio. Qui ci venne incontro un signore che parlò con i miei genitori. Quando fui più grande chiesi alla mamma che cos’era quell’ufficio e lei mi disse che eravamo andati al Consolato italiano, che si trovava al sedicesimo piano del grattacielo di cui non ricordo il nome.

 

La partenza per l’Italia  

Un giorno ci ritrovammo ( io, mia sorella Rosa e la mia mamma) sul parapetto di una grande nave ( sicuramente era il transatlantico Rex)  assieme a tante persone mentre sventolavamo dei fazzoletti, in segno di saluto verso la folla che era giù. In mezzo a questa gente vidi il mio papà che ci salutava anch’egli, mentre cercava di dirci qualche cosa, ma noi non lo capivamo perché c’era una grandissima confusione. Quasi tutti piangevano. Poi ci fu un lungo e assordante suono di sirena e la nave si mosse verso il grande mare. Un giorno, durante la navigazione, il mare era molto mosso e la nave si muoveva paurosamente ondeggiando. Mia madre, che portava nella pancia una bimba, si era seduta su un sedile, a prua, a prendere il sole, mentre mia sorella Rosa correva da una parte all’altra sulla coperta della nave. Anch’io cercai di mettermi a correre, ma ai primi passi, mentre la nave si inclinava da una parte all’altra, fui preso da così tanta paura che andai a nascondere il mio volto sulle gambe della mamma. Quella stessa notte, nella cabina dove dormivamo, la furbacchiona e dispettosa di mia sorella occupò il mio posto nel letto a castello, per cui io fui costretto ad andarmene al terzo piano.

A un certo momento la nave ondeggiò così forte, al punto che io ( veramente non avevo allacciato le cinture di sicurezza, come si fa oggi con i sedili delle automobili) caddi giù andando a sbattere con la testa contro il lavandino, posto proprio di fronte al letto a castello. Mi procurai un bel bernoccolo. La mamma ne fu molto spaventata e mi condusse in infermeria. Qui ebbi tanta paura nel vedermi davanti a un medico ed un infermiere in camice bianco che mi visitarono. Un giorno, su quella nave, prima di giungere al porto di Napoli, venne organizzata una meravigliosa festa per i bambini: c’erano delle signorine che ci facevano ballare, giocare, cantare; un clown faceva uscire dal suo coniglio un nastro lungo e colorato, a me cavò dal naso due palline grandi quanto una noce. E poi lanci di coriandoli e stelle filanti, distribuzioni di dolcetti e cioccolatini e, infine, ci venne regalato un giocattolo. Non dimenticherò mai quella serata gioiosa trascorsa in un incantevole salone dalle pareti tappezzate con immagini dei personaggi delle fiabe, illuminato da tantissime luci colorate, addobbato con tanti striscioni colorati. Finalmente, dopo tanti giorni di navigazione ( forse dieci), giungemmo al porto di Napoli, dove sbarcammo. Qui, ad attenderci, c’era mio nonno Vincenzo Sorrentino: un uomo alto, un po’ robusto, vestito di nero, con un cappello anch’esso nero, elegante. Egli ci abbracciò, e, dopo uno scambio di alcune parole, ci condusse ad una carrozzella su cui salimmo per recarci alla stazione ferroviaria per prendere il treno per Rosarno. Del viaggio in treno non ricordo nulla. Ricordo quando vivi la mia nonna Maria Rosa che, pur essendo molto ammalata, mi accolse festosamente chiamandomi “principino della nonna”.

Di Rosarno ricordo quando andai ( non so con quali parenti) a Polistena a trovare la cugina Rosa Muratore che era in collegio de ci fece vedere la sua bravura nel suonare il pianoforte. Dopo alcuni giorni di permanenza a Rosarno, nonno Vincenzo ci accompagnò a Ruvo del Monte. Qui ci sistemammo in una casa presa in affitto in Largo Sant’Anna. E qui cominciarono le mie prime monellerie. A casa c’erano un via vai di persone che venivano a salutare mia mamma e a chiedere notizie dei loro parenti in America. Ed io, un giorno in cui tutto il paesaggio era bianco per un’abbondante nevicata, approfittando della presenza di alcuni parenti in casa, uscì fuori, semivestito, e mi misi a correre in mezzo alla neve, rotolandomi, buttando in aria palle di neve, correndo veloce per i campi come una lepre. Mi sentivo felice e libero come un uccello, non sentivo per nulla il freddo, non mi accorgevo del passare del tempo.

Si stava facendo buio, ma a un certo punto mi sentii afferrare per un braccio da uno zio che mi trascinò con decisione fino a casa. E qui non mancarono i rimproveri della mamma. Qui, a Ruvo, cominciai ad avere i primi amici. Con alcuni andavo molto d’accordo, con altri litigavo perché volevano salire sul mio triciclo ( a quei tempi era un giocattolo poco conosciuto). Per questi continui litigi la mamma si arrabbiò tanto che mi distrusse il giocattolo della discordia, buttandolo fuori dal balcone.

 

A scuola

E qui, a scuola, fu per me un vero disastro: parlavo più in inglese che in italiano e per questo apprendevo con difficoltà. Incomprensibilmente fui relegato all’ultimo banco, senza vedermi mai venire vicino il maestro ( ciò che invece faceva premurosamente con gli altri miei compagni seduti ai primi posti) ad aiutarmi a fare i bastoncini, le aste e le vocali. A poco a poco in me veniva a diminuire l’entusiasmo dei primi giorni e la scuola era diventata per me un luogo noioso, dove io mi sentivo semplicemente posteggiato. Eppure io, all’inizio ero un bambino ben educato, ben curato nella persona1 Ancora oggi non riesco a spiegarmi quella indifferenza e, addirittura, l’atteggiamento negativo nei miei riguardi ( sono molto arrabbiato nello scrivere queste cose incomprensibili per un bambino; e se ci penso oggi, credo che, per colpe non mie, la mia vita avrebbe potuto prendere un’altra direzione e che mi sarei potuto risparmiare tante umiliazioni, sofferte anche da ragazzo). Stavo diventando in quella scuola quasi un automa.

Tutti i giorni mi spariva dalla cartella una matita, di quelle con la gomma sopra, senza che mai venisse scoperto il ladruncolo. E com’è facile capire quell’anno fui bocciato insieme a tanti altri contadinelli e pastorelli che per me erano molto più intelligenti di quelli che “ufficialmente” erano ritenuti bravi. E per questo dovetti ripetere l’anno di scuola. E da ripetente mi ritrovai con un altro insegnante non molto diverso dal precedente, il quale mi dedicava poco tempo e attenzione ( forse perché con me avrebbe dovuto impegnarsi un po’ di più). E ciò che mi indispettiva era vedere la stessa premura del maestro di prima verso alcuni alunni. E così, a poco a poco, covavo dentro di me quasi odio verso la scuola ( non più un luogo piacevole come per i primi giorni o, meglio ancora, come quando frequentavo l’asilo americano di cui conservavo e conservo tutt’oggi bellissimi e dolcissimi ricordi), verso i maestri e, perché no, verso i compagni coccolati, alcuni dei quali avevano anche la colpa di insultarmi, secondo loro, chiamandomi “l’americano” con senso di disprezzo; ma non dimenticherò mai quando addirittura uno di loro si permise di chiamarmi “il nemico della Patria” ( ciò forse era dovuto al fatto che l’America si era alleata all’Inghilterra nella guerra contro l’Italia e la Germania). Fu così che, a poco a poco, cominciai a odiare a poco a poco non solo tutto ciò che era scuola, secondo il mio modo di pensare da bambino, ma a combatterlo con un’arma che avevo a disposizione: non studiare, non apprendere, assentandomi mentalmente da tutto ciò che mi veniva impartito, pensando così di fare un dispetto agli insegnanti.

Una sola volta, in quegli anni, fui tanto felice e soddisfatto di essere diventato un bravo scolaro: ero ai primi giorni di frequenza della seconda classe elementare ( finalmente ero stato promosso) e ancora non sapevo leggere, allorché il mio maestro si assentò e venne nella mia aula un giovane insegnante supplente, il quale mi fu simpatico dal primo giorno che lo vidi per il modo di comportarsi gentile e cordiale nei riguardi di tutti noi bambini. Non potrò dimenticare quando mi si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla dicendomi: “Sorrentino, vedo che sei un ragazzo intelligente e sono sicuro che domani mi leggerai bene questa paginetta!” e mi indicò la lettura da fare. Io fui tanto commosso per questa particolare attenzione dimostrata nei miei confronti. Infatti, una volta giunto a casa, mi esercitai nella lettura, non solo di quella paginetta assegnatami, ma anche di altre. E all’indomani tutti rimasero a bocca aperta nel sentirmi leggere così bene, soprattutto quelli che spesso e volentieri mi davano del “ciuccio”. E la mia bravura aumentava di giorno in giorno. Poi rientrò il vecchio maestro e le cose ripresero ad andare come prima.

Fui promosso in terza classe ed ebbi una nuova maestra, la quale si mostrò con me molto buona. Però io non avendo una buona preparazione scolastica, per le ragioni che ho detto prima, frequentai questa classe con un po’ di difficoltà. Comunque riuscii ad andare alla classe successiva. E qui cominciarono le mie nuove disavventure con un nuovo maestro. In quarta classe continuai ad essere abbandonato a me stesso, relegato sempre all’ultimo posto a sedere. Qui sperimentai, sempre sulla mia pelle e quasi spesso ingiustificatamente, un nuovo metodo di punizione: non più bacchettate sul palmo della mano, ma soprattutto sulle nocche delle dita, provocandomi dolori indicibili. Provai molto interesse per le letture del maestro di fatti di storia, di pagine del libro Cuore, di Pinocchio ( letture che sono rimaste impresse nella mia mente per moltissimo tempo).

Quell’anno soffrii per un’otite che mi causò una forte sordità; e, nonostante una cura praticatemi da una mia zia, il mio udito non migliorò. In che cosa consisteva questa cura? La zia Filomena preparava con molta maestria un imbuto di stoffa di cotone imbevuto nella cera liquida, poi, una volta solidificata la cera, prendeva questo cono di stoffa e ne poneva la parte appuntita nel condotto dell’orecchio ammalato; accendeva la parte superiore del cono incerato ed io avvertivo che il mio orecchio si liberava dal cerume. Ma con tutto ciò, come ho detto prima, il mio udito non migliorò.

A scuola, il maestro credeva che io fossi distratto ( eppure quell’anno mi ero proposto di diventare bravo e ce la mettevo tutta) e non voleva convincersi che io non sentivo bene, nonostante che la mia povera mamma lo supplicasse di mettermi in un banco più avanti in modo che potessi partecipare con attenzione alle lezioni. Ma tutto fu inutile. Ed ecco l’intervento di zia Filomena. Chi era questa zia? Dovete sapere che nonna Maria aveva a Ruvo una sorella, Angelina, alla quale era morto il marito quando era ancora giovane, e che aveva un figlio, Nicola, di un anno più piccolo di me. E zia Angelina viveva con la mamma del marito, cioè con zia Filomena, una donna dai modi un po’ rozzi, decisa nelle sue cose, analfabeta, ma molto buona di animo. Faceva dei lavori molto faticosi in campagna (purtroppo doveva pensare, assieme a zia Angelina, a mandare avanti la famiglia, perché aveva perso il marito durante la Prima Guerra Mondiale). Molti la temevano e la rispettavano per il suo carattere deciso e risoluto e perché sapeva far valere i suoi diritti. A me e alle mie sorelle voleva un gran bene. Un giorno questa zia mi prese per mano e mi accompagnò a scuola, chiamò il maestro e, in forma dialettale gli disse: “Tu lo sai che mio nipote non sente bene! Perché non lo hai messo avanti come ti ha chiesto la sua mamma? Adesso devi farlo davanti a me!”. Il maestro fu quasi spaventato per il modo di parlare della zia e, senza fiatare, mi sistemò ad un terzo banco. E poi la zia aggiunse: “Hai capito quello che ti ho detto?”. E se ne andò senza un saluto. Di tutto ciò fui soddisfatto perché finalmente anch’io mi sentivo protetto. Ma passarono alcuni giorni e venni di nuovo rimesso all’ultimo posto. Quando la zia seppe di questa nuova mia risistemazione all’ultimo posto, venne a scuola e, aprendo con violenza la porta, entrò nell’aula come una furia, dirigendosi con fare minaccioso verso il maestro, il quale, colto di sorpresa, si alzò atterrito davanti a quella improvvisa apparizione. Zia Filomena affrontò con fare risoluto il maestro. E disse. “Mi sembra che tu non hai capito bene quello che ti ho detto l’ultima volta! Vuoi proprio che ti butti giù dalla finestra?. E tutto ciò fu accompagnato con il gesto di chi sta per afferrare per il petto una persona con l’intenzione di buttarla dalla finestra nella sottostante strada. Ma non lo sfiorò nemmeno con un dito. E poi prese la via dell’uscita, senza proferire parola. In aula regnò, per qualche minuto, un assoluto silenzio. Non ricordo se, in seguito a questo episodio, fui avvantaggiato. Comunque, per concludere l’andamento riguardante il mio andamento scolastico, devo dire che per me fu un completo fallimento. Quante volte sono fuggito via dall’aula mentre l’”educatore” mi dava le sue venti o trenta bacchettate sul palmo delle mani. A queste condizioni potevo mai amare la scuola?

 

La divisa da balilla  

Durante le manifestazioni in occasione di ricorrenze particolari ( la fondazione di Roma, la festa degli alberi ecc.) o durante il sabato fascista, la maggior parte degli alunni delle scuole elementari indossava una divisa ( da balilla, da figli della lupa, ecc.). Io appartenevo, per la mia età, alla categoria dei “balilla”. Purtroppo non avevo la divisa perché, per averla, avrei dovuto pagare 10 lire in quanto, secondo il maestro fiduciario, appartenevo a famiglia agiata; mentre per tutti gli altri il costo della divisa era di mezza lira. Tutto questo diverso trattamento a me non piacque perché, anche se ero piccolo, vedevo i sacrifici che la mia povera mamma faceva per procurarci da mangiare e per vestirci ( il mio papà dall’America non poteva mandarci nulla a causa della guerra) e doveva far cambio di lenzuola, coperte, un bellissimo orologio a pendolo e tante altre cose, che aveva portato dagli Stati Uniti, con generi di prima necessità. Mia madre, per non farmi sentire umiliato nei confronti degli altri miei compagni, era disposta a spendere quei soldi. Io, però, mi opposi con risolutezza e preferii partecipare a quelle manifestazioni con il grembiulino nero[1].

 

Durante la sfilata

Quando si usciva per il paese, gli insegnanti ci inquadravano in fila, per due, disponendo avanti i più piccoli, vestiti da “figli della lupa”, poi i meno piccoli, poi ancora i “balilla” e, infine, quelli senza divisa ( tra i quali logicamente non poteva mancare il sottoscritto). Prima di partire, la maestra Muscio (evidenziando un comportamento marziale) ci passava in rassegna per controllare se fosse stato eseguito l’ordine dello “allineato e coperto”. E poi si iniziava a marciare, portando ritmicamente il passo allo scandire con voce imponente del “un, due, passooo!..”; e si intonavano inni del regime: “Primavera di bellezza”, “Per Benito Mussolini”, “Faccetta nera” e tanti altri. Coreograficamente era bello vedere i compagni disposti avanti, mentre impeccabilmente portavano il tempo con movimenti precisi, non solo con il passo, ma anche con il loro sederino, con il petto in fuori, che faticosamente cercava di rimanere immobile, onde evitare di essere coinvolto dallo spostamento continuato delle braccia, delle gambe, e.. perché no? Anche del culetto. Ma quello che mi colpiva particolarmente, durante queste marce, era il fiocco che scendeva dalla sommità del fez[2] nero spostarsi, con perfetto sincronismo di tempo assieme agli altri fiocchi: destra e sinistra e poi sinistra e destra…E noi dietro, quelli senza divisa, sentivamo quasi di essere un’appendice fuori posto, che deturpava quella bella immagine d’insieme.

Non osservati, deridevamo alcuni che stavamo davanti a noi, chiaccheravamo e perdevamo la concentrazione sul nostro modo di collaborare alla riuscita di quella manifestazione. E così il passo perdeva quella ritmicità richiestaci. Ed ecco, quasi a volerci risvegliare da un sonno profondo, Ed ecco, quasi a volerci risvegliare da un sonno profondo, il prorompere tuonante di un “Sorrentino! Porta il passo!”. Ed io, destandomi di soprassalto, con un saltello rimettevo il piede ribelle al suo posto. Questo accadeva anche per i miei compagni della retroguardia. Fuori assistevano orgogliose alcune mamme che non si stancavano di osservare i loro figli. La manifestazione si concludeva nel cortile della scuola dopo aver ripetuto tante volte con tutto il fiato che avevamo in gola: “Evviva il Duce! Evviva il Re!”. E infine, allo “sciogliete le righe!” tutti fuggivamo fuori, chi con grida di esultazione e chi, come me, con un “uffaaa!” sommesso.

 

Il sabato fascista     

Ogni sabato, durante il pomeriggio, tutti gli alunni di terza, quarta e quinta classe ci recavamo nel cortile del plesso scolastico per eseguire degli esercizi ginnici. Venivamo prima disposti in fila per due, rispettando l’ordine di altezza, e poi, al comando di “fianco sinistro!”, ci disponevamo in riga, infine, al comando di “allargate le braccia, toccando le dita dei compagni a fianco!” e ( a quelli della riga dietro) di “un passo in dietro!” e, una volta allineati e coperti, ci trovavamo di fronte la maestra Muscio e, alle sue spalle, lo staff degli insegnanti di Ruvo che seguivano con fare serio e impegnato i nostri esercizi ginnici.

Durante una di queste attività, mi trovai a fianco ( ero nella prima riga) un mio caro amico, il quale aveva la brutta abitudine di essere molto insistente nel prendere in giro i compagni. E quella volta l’oggetto delle sue burle fui proprio io. Cominciò col chiamarmi “ u ‘mericanu”, “rienti ri ciucciu” “zappedde” ( questi ultimi appellativi per via dei miei incisivi grandi e sporgenti) e tante altre ingiurie. Per un po’ accettai lo scherzo, ma poi mi stancai nel sentirmi insultato e lo pregai ripetutamente di smetterla; e lui, invece, continuò. Allora mi arrabbiai tanto che…

A questo punto, per poter continuare il discorso, devo dire ciò che m’era capitato di udire alcuni giorni prima di quel sabato: ero affacciato al balcone di casa che dava sulla via Marconi, proprio alle spalle della chiesa quando udii un rumore causato dal capovolgimento di una carriola stracolma di legna e le imprecazioni che ne seguirono da parte dell’operaio addetto ( uomo dedito al vino e anche bestemmiatore). Però quello che mi colpì, tra quelle imprecazioni, non furono le bestemmie contro i Santi, bensì un chiaro e forte “ và a fan… tu e Mussolini!”. Io rimasi inorridito a sentire quelle parole contro il Duce che per me ( e pure per gli altri) era diventato un mito ( grazie al lavaggio del cervello che la propaganda fascista riusciva a farci!).

E, riprendendo il discorso interrotto, mi arrabbiai a tal punto che ( proprio al momento dell’ultima fase degli esercizi di flessioni, quando si portano le braccia, allargandole, verso il basso), mollai un manrovescio sul viso del mio amico, il cui volto divenne subito una maschera di sangue che usciva abbondante dal naso.

Ed ecco il prorompere con voce tonante da parte della Muscio: “Sorrentino, ti mando in casa di correzione!”. Ma io, pronto, ricordandomi la frase dell’operaio, controbattei: “Và a fan.. tu e Mussolini!”. E colsi, in un attimo, quasi come un flash, un sorriso sul volto di una maestro, come di contentezza. E con uno scatto fuggii verso casa a dire alla mia povera mamma di tenerci pronti perché sarebbero sicuramente venuti i carabinieri ad arrestarmi. Ma non avvenne proprio nulla. Non fui rimproverato da nessuno e mi sentii tranquillo. Solo oggi riesco a spiegarmi il motivo di questo silenzio: questo episodio avvenne proprio nel periodo in cui fu arrestato Mussolini[3].

 

 

[1] Alla fine della guerra, nel sottoscala, proprio all’ingresso del plesso scolastico, vi era uno scatolone pieno di divise inutilizzate accanto a un ammasso di ferro vecchio che noi ragazzi avevamo raccolto per costruire le armi per la difesa della Patria.

[2] Il fez era un copricapo di origine araba che i balilla utilizzavano, si usava portarlo un po’ inclinato “alla ventitrè”.

[3] Per chi vorrà obiettare che questo arresto si verificò quando le scuole erano chiuse, dovrò far notare che gli esercizi ginnici si svolgevano anche durante i mesi estivi.